Dopo la strage di “Charlie Hebdo”. La libertà degli artisti nell’era del fondamentalismo

Questo è l’intervento di Oliviero Ponte di Pino al convegno Blasphemìa. Il Teatro e il Sacro, che si è tenuto al Teatro Olimpico di Vicenza l’8 e 9 novembre 2015.
Il 13 novembre 2015, a Parigi in una serie di attacchi terroristici di matrice islamica sferrati da un commando armato collegato all’autoproclamato Stato Islamico, vennero uccise 90 persone (molte di loro al Teatro Bataclan) e più di 350 altre vennero ferite.
Questo testo è stata pubblicato nel volume Blasphemìa, a cura di Roberto Cuppone e Ester Fuoco, CELID, Torino, 2019.

Prologo in teatro

La scena controversa dell’ Idomeneo alla Deutsche Oper di Berlino.
Nel settembre 2006, in seguito a una segnalazione della polizia, il sovrintendente della Deutsche Oper di Berlino, Kirsten Harms, decide di cancellare le repliche dell’Idomeneo di Mozart con la regia di Hans Neuenfels. Tre anni prima lo spettacolo era andato regolarmente in scena. Il problema è sorto a causa della possibile irritazione causata da una scena in cui appare la testa mozzata del profeta Maometto, accanto a quelle di Buddha e di Cristo.
La decisione del sovrintendente viene decisamente condannata dalla stampa internazionale (sulla vicenda vedi la voce di wikipedia), ma c’è una notevole differenza nelle reazioni. Per l’ambiente teatrale (a cominciare dai critici), è necessario garantire la libertà d’espressione (quasi all’unanimità) e l’autonomia dell’estetico. Per i teatranti e gli intellettuali in genere, che da sempre lottano contro la censura, lo spazio protetto della scena (come quello delle gallerie d’arte) è una “zona franca” in cui può accadere (quasi) di tutto, a prescindere dalla sensibilità di alcune fasce di spettatori. Altri osservatori si fanno invece carico di preoccupazioni più esplicitamente politiche e sostengono che possa essere giusto cancellare uno spettacolo che urta la suscettibilità di un gruppo di cittadini.

La linea rossa (ottobre 2014-ottobre 2015)

Nell’ottobre 2014 Salman Rushdie dedica una lunga riflessione, quasi un saggio, alla possibilità di fare arte nell’epoca dei fondamentalismi religiosi. Lo scrittore anglo-indiano sa bene di cosa sta parlando: nel 1988, dopo la pubblicazione del suo romanzo I versi satanici, una fatwa dell’ayatollah Khomeini lo ha condannato a morte per blasfemia. Nei “versi satanici” del Corano, che la tradizione considera ispirati da Satana, si dichiarano degne di venerazione le tre dee pagane preislamiche Allāt, ʿUzzā e Manāt (figlie di Allāh, dio pagano del pantheon arabo, chiamato con lo stesso nome con cui oggi in arabo si indica il Dio unico delle religioni monoteiste).
Lo scrittore anglo-indiano è costretto a vivere per anni sotto scorta. Che le minacce non fossero vane, lo dimostra il fatto che Ettore Capriolo, che aveva tradotto in italiano il romanzo, venne accoltellato in casa sua, a Milano, il 3 luglio 1991; il traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, venne ucciso a Tokyo il 12 luglio.
Nell’affrontare la situazione dell’artista nella società contemporanea, Salman Rushdie parte da Harold Pinter e dal suo rifiuto di spiegare il significato profondo, ovvero il “senso” o il “tema” delle sue opere:

“Se il deciso rifiuto di Pinter si colloca a un’estremità dello spettro artistico, al polo opposto troviamo i sostenitori di un punto di vista che ho sentito esprimere per la prima volta da Wim Wenders. Il regista mi disse che nella nostra epoca complessa e disorientante era importante che nel narrare storie gli artisti evitassero accuratamente l’ironia. Ormai non potevamo più permettercela. Bisognava invece essere espliciti e cristallini, così che il pubblico, o il lettore, non avesse dubbi circa gli intenti dell’artista. Era un’affermazione importante dalle labbra dell’autore del solenne e, a mio avviso, profondamente criptico, Il cielo sopra Berlino. Così in quel film, chiesi a Wenders, gli angeli Bruno Ganz e Otto Sander appollaiati sopra la città come gargolle in carne e ossa, che guardano con invidia l’umanità dabbasso, e Peter Falk nel ruolo dell’ex angelo che ha rinunciato all’immortalità per poter vivere la vita invece di limitarsi a osservarla – quegli angeli andavano ‘letti’ testualmente? Sì, rispose Wenders inequivocabile. Peccato, pensai.”

Rushdie conclude così la sua lunga riflessione:

“Come Harold Pinter, preferisco di gran lunga il linguaggio dell’artista, ambiguo e indiretto, che consente molteplici letture di un’opera. Ma, seguendo l’esempio di Harold, non posso, come cittadino, evitare di parlare dell’orrore del mondo in questa nuova era di caos religioso e del linguaggio che lo evoca e lo giustifica, così che i giovani, inclusi i giovani britannici, spinti verso azioni di estrema brutalità, sono convinti di combattere una guerra giusta.”
(Salman Rushdie, Lo scrittore e l’integralista, “la Repubblica”, 19 ottobre 2014)

Poche settimane dopo, il 7 gennaio 2015, Flammarion pubblica in Francia il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Soumission (Sottomissione esce in Italia il 15 gennaio per Bompiani), dove si immagina che la Francia del 2022 sarà governata dal Partito dei Fratelli Mussulmani, con una serie di effetti benefici: “la fine della guerriglia nelle banlieue, il calo della disoccupazione grazie al divieto per le donne di lavorare, l’afflusso dei petrodollari da Qatar e Arabia Saudita”. La diagnosi dello scrittore francese è spietata:

“La corrente di idee nata con il protestantesimo, che ha culminato nel secolo dei Lumi e prodotto la Rivoluzione, sta morendo. Tutto ciò rimarrà una parentesi nella storia dell’umanità.”
(Michel Houellebecq, in Anais Ginori, Non odio l’Islam descrivo la fine dell’Occidente, “la Repubblica”, 7 gennaio 2015)

A Parigi, la mattina in cui Soumission arriva nelle librerie, due uomini armati fanno irruzione nella redazione della rivista satirica “Charlie Hebdo”, in rue Nicholas Appert, e uccidono 12 persone: il direttore Stephane Charbonnier, alias Charb; i vignettisti Georges Wolinski (ebreo di origine marocchina), Jean Cabut (Cabu), Bernard Verlhac (Tignous), Philippe Honoré; e poi Bernard Maris, economista ed editorialista; Elsa Cayat, psicologa e giornalista; Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand; Mustapha Ourrad, correttore di bozze; l’addetto alla portineria Fréderic Boisseau; e due poliziotti, Franck Brinsolaro e Ahmed Merabet. La redazione di “Charlie Hebdo” è stata cancellata da due raffiche di kalashnikov. Tra le vittime, due giovani di origini magrebine, il correttore di bozze e uno dei due poliziotti.
La rivista raccoglie alcuni dei più sarcastici e provocatori giornalisti e vignettisti francesi. Non è un covo di goliardi, sono gli ultimi eredi dell’anima libertaria e provocatoria del Maggio ’68: è la generazione dei padri, quella contro cui si scaglia Houellebecq nei suoi romanzi. Andando ancora più indietro, gli ex ragazzi di “Charlie Hebdo” sono degli “estremisti illuministi”, che portano alle più radicali conseguenze la libertà di pensiero e d’espressione.

Una delle vignette di Lars Vilks ritenute blasfeme.
Pubblicare le vignette su Maometto (accanto a quelle contro il dio dei cristiani e quello degli ebrei) è una consapevole scelta politica. “Charlie Hebdo” sta proseguendo una battaglia iniziata dieci anni prima. Il 30 settembre 2005, il quotidiano danese “Jillands-Posten” (seguito qualche giorno dopo da un giornale norvegese di ispirazione cristiano protestante, il “Magazinet”) pubblica una serie di caricature di Maometto: in una di esse, il profeta ha una bomba al posto del turbante. Nel mondo musulmano si scatenano reazioni violentissime, con pogrom contro i cristiani in diversi paesi dell’Africa e dell’Asia. In Europa i vignettisti e le testate che li pubblicano vengono minacciati. Nei mesi successivi, anche per un esplicito gesto di solidarietà, altri giornali europei riprendono le vignette contestate, l’intera serie (in Italia lo fanno “La Stampa”, “Libero”, “La Padania”, “L’Opinione della Libertà”) o solo una parte (come “la Repubblica e il “Corriere della Sera”).
Lo strip tease televisivo del ministro Roberto Calderoli.
E’ in quella circostanza che il 16 febbraio 2006 il Ministro per le Riforme Istituzionali Roberto Calderoli esibisce al Tg1 una t-shirt con una vignetta in cui erano Maometto, in presenza di Budda e Jahvè, viene rimproverato dal Dio cristiano che gli dice: “Non brontolare, Maometto, siamo stati messi in caricatura tutti quanti, qui”. Il gesto provoca polemiche in patria e sanguinose manifestazioni anticristiane in alcuni paesi arabi.
Anche “Charlie Hebdo” risponde all’appello: l’8 febbraio 2006 la rivista ripubblica le vignette incriminate, insieme a molte altre. La prima tiratura di 160.000 copie va subito esaurita, arrivano due ristampe per oltre 400.000 copie. La campagna “illuminista” di “Charlie Hebdo” è salita di tono, si innesca un’escalation di vignette sempre più oltraggiose cui rispondono minacce sempre più gravi.
La redazione è consapevole dei rischi che comporta questa scelta, anche se nessuno immagina che la vendetta possa essere tanto sproporzionata. La sequenza dell’attentato del 7 febbraio 2015 – le riprese vengono diffuse dai telegiornali di tutto il mondo – è agghiacciante per l’insensata violenza, ma grottesca per l’imperizia degli attentatori e delle forze dell’ordine. La distanza tra la presunta offesa (alcune vignette) e la sanguinaria reazione (una strage) suscita orrore ed emozione. La solidarietà è immediata, unanime. L’hashtag #JeSuisCharlie fa il giro del mondo. Le autorità francesi lanciano un appello “all’unità nazionale”. La manifestazione di solidarietà dell’11 gennaio porta in piazza quasi quattro milioni di persone.

Ad aprire il corteo è l’esibizione dei leader politici del mondo intero, che per una giornata rimuovono tutte le tensioni della geopolitica mondiale: “Questa domenica, 11 gennaio 2015, Republique e democrazia hanno ripreso la parola invadendo con dignità le strade di Parigi… Difendere il ‘marchio’ Francia per trovare il nostro posto nell’avvenire. Sì: l’esemplarità, l’irriverenza, le matite, l’intelligenza sono più efficaci e più educative di tutti gli eserciti del mondo”
(“Les Echos”, cit. da “la Repubblica”).

Commenta Christian Salmon:

“La performance anti-terroristica consiste in effetti nel riscrivere la narrativa tradizionale fondendo insieme visioni del mondo contraddittorie, ideali che si escludono a vicenda, aspettative inconciliabili… sinistra e destra, pacifismo e militarismo, legge e trasgressione, ordine e anarchia; il pansessualismo vitalista di un Wolinski aperto a tutte le trasgressioni e l’onanismo depressivo di Houellebecq; l’anticlericalismo di ‘Charlie Hebdo’ e l’ordine morale della Manif pour tous”.

Questo ampio sostegno viene apprezzato. Gérard Biard, caporedattore dei sopravvissuti di “Charlie Hebdo”, dichiara:

“La libertà di coscienza, la libertà di pensare, la laicità, adesso sono valori che tutti hanno fatto propri. Essere laico non è schierarsi contro la religione. Ognuno ha il diritto di credere ma ognuno ha anche il diritto di non credere. Questo diritto deve essere assicurato dalla Stato. La laicità è questo.”
(Diego Bianchi, La solitudine delle matite: tra ironia e mitra “Charlie Hebdo” cerca la normalità, “Il Venerdì di Repubblica”, 6 marzo 2015)

L’attenzione dei media e l’ondata di solidarietà, seppure venata di ipocrisia, hanno però un effetto paradossale: trasformano “Charlie Hebdo” e la sua redazione in un simbolo, ne fanno un mito. Se ne accorge subito Luz, un altro sopravvissuto di “Charlie Hebdo”:

“Io sono tra coloro che si sentono a disagio. In definitiva, la carica simbolica attuale è tutto ciò contro cui ‘Charlie’ ha sempre lavorato: distruggere i simboli, far crollare i tabù, smascherare i fantasmi. Con la differenza che oggi il simbolo siamo noi. Come si distrugge il simbolo che siamo noi stessi?”

Non è ancora calata l’emozione e già si apre il dibattito. Va bene la libertà d’espressione, ma come la mettiamo con la responsabilità? Gli artisti devono tener conto delle conseguenze che possono avere le loro opere?
Nei commenti a caldo, il direttore dell’edizione europea del “Financial Times” Tony Barber accusa il settimanale satirico di “deridere, stuzzicare e punzecchiare i musulmani” da troppo tempo: “non si vuole minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e puniti, o suggerire che la libertà di espressione non deve estendersi alle rappresentazioni satiriche della religione”. Ma, aggiunge il direttore dell’edizione europea del Financial Times, “si tratta semplicemente di dire che un po’ di buon senso sarebbe utile a pubblicazioni come ‘Charlie Hebdo’ e il ‘Jiyllards-Posten’ danese, che pretendono di sostenere la libertà quando provocano i musulmani”.
Sulla stessa linea anche lo scrittore britannico Will Self, che già il 9 gennaio attacca “Charlie Hebdo”: “Una buona satira deve colpire i potenti, e questo non è il caso dei musulmani”. Self vorrebbe un’arte politicamente corretta, una satira che non aggredisca i deboli e le minoranze.
In una intervista al sito http://www.eastonline.eu, il 16 gennaio, Andeel, disegnatore satirico egiziano, è sulla stessa linea:

“Credo che i limiti della satira debbano essere scelti dai disegnatori satirici stessi, secondo il modo in cui vedono i valori in cui credono e le battaglie che più vogliono combattere. Per esempio io ho smesso di criticare i Fratelli Musulmani dopo il 30 giugno 2013 quando non hanno più avuto il potere nelle loro mani in Egitto e hanno iniziato a essere delle vittime. Credo che la satira sia una grande arma nelle mani dei deboli contro la tirannia. Non credo però che la satira debba essere in genere sacralizzata, altrimenti potremmo finire con usarla contro chiunque crediamo sia diverso, le minoranze, le etnie o chiunque possa già soffrire di discriminazione.”

Il politicamente corretto s’incrocia immediatamente con le problematiche legate all’antisemitismo e al negazionismo, che la legislazione di diversi paesi europei considera reati. Dopo gli attentati (che hanno per obiettivo anche la comunità ebraica parigina), il primo ministro francese, Manuel Valls, è chiarissimo: “Non bisogna confondere la libertà d’opinione e l’antisemitismo, il razzismo e il negazionismo”.

Tra la difesa a oltranza della libertà d’espressione e i reati di negazionismo e antisemitismo si annida però un paradosso. Il primo a farne le spese è Dieudonné M’Bala M’Bala, comico francese noto per le battute caratterizzate da “un antisemitismo quasi patologico” e già condannato per “incitazione all’odio razziale”. Ha invitato ai suoi spettacoli noti negazionisti come Robert Faurisson, ha definito Bin Laden “il personaggio più importante della storia contemporanea” e si è spesso scagliato contro la “setta ebraica”, con pesanti ironie sull’Olocausto.
Il 14 gennaio Dieudonné viene fermato, rinviato a giudizio per apologia del terrorismo (e poi scarcerato), per aver postato su Facebook una serie di frasi su “Charlie Coulibaly” (Coulibaly è il terzo attentatore implicato negli eventi del 7 gennaio). Dieudonné difende così la sua parodia dell’hashtag #JeSuisCharlie: “Voglio solo far ridere e ridere della morte, proprio come Charlie”.
Stefania Parmeggiani (Fino a che punto un artista può essere irresponsabile?, “la Repubblica”, 21 gennaio 2015) e Edoardo Vigna su (Tutto nasce tra Arlecchino e il Sessantotto. Ecco perché la nostra satira è blasfema. Ma c’è chi chiede: ne vale la pena?, “Sette”, 6 febbraio 2015) danno conto del dibattito sui limiti della libertà d’espressione e sulla “linea rossa” che artisti e satirici non dovrebbero superare. Su un fronte ci sono quelli che, come Remo Bodei, non accettano vincoli: “Ci sono voluti secoli per sottrarre l’arte al potere della religione e della politica e adesso non si può tornare indietro (…) Il problema non è nella libertà degli artisti, ma nella suscettibilità dei credenti” (Stefania Parmeggiani, cit.). Aggiunge Salvatore Veca, con un interessante ribaltamento di prospettiva:

“L’argomento utilizzato è che, quando tocchiamo le credenza di altri, non le rispettiamo. Ma se penso che la tua credenza sia riprovevole o sbagliata, avendone una alternativa o non avendone affatto, nel deriderla non sono io che ti umilio: sei tu che non accetti che qualcun altro possa pensare diversamente da te e comunicarlo agli altri. Il problema, insomma, diventa di chi non tollera: altrimenti lo guardiamo dall’altro punto di vista. E noi, qui, non possiamo mollare”
(Edoardo Vigna, cit.).

Sulla stessa linea il vignettista Steve Bell, su “The Guardian”, il drammaturgo e regista Rodrigo García su “Le Monde”, la regista tedesca Shermin Langhoff (“Su un palcoscenico tutto è lecito”), lo scrittore e drammaturgo britannico Alan Bennett (“Penso che nessun artista o scrittore debba esitare a produrre la sua arte perché teme o pensa o immagina che possa offendere qualcuno o provocare reazioni negative”); il regista e scrittore italiano Moni Ovadia.
L’artista italiano Maurizio Cattelan, un provocatore seriale di altissimo livello (anche nei confronti della Chiesa cattolica e del papa), rivendica la libertà dell’artista e accetta i rischi che comporta:

“Gli artisti, come gli scienziati, hanno la capacità di guardare oltre i limiti imposti dalla legge morale del tempo in cui vivono. E’ un raggio d’azione privilegiato, che comporta da sempre dei rischi. Basta pensare a Copernico o a Galileo per rendersi conto che non c’è niente di nuovo: la storia si ripete, pur con leggere variazioni. Ieri era la scienza, oggi sono gli artisti, ma la caccia alle streghe è la stessa”
(Stefania Parmeggiani, cit.).

Paolo Rossi spiega che dal punto di vista dei comici, una regola,

“piccola, però, c’è: la satira deve far ridere qualcuno e far arrabbiare qualcun altro. Se fa solo ridere non è satira, se fa arrabbiare senza far ridere lo è ancor meno. Partendo da questo, ci sono anche dei limiti che ti dai. A teatro li posso spostare più in là, ma se vado in tv alle 20, non uso le stresse espressioni”
(Edoardo Vigna, cit.).

Sull’altro fronte, c’è chi vuole tracciare una linea rossa, che ponga vincoli alla libertà assoluta degli artisti, per vari ordini di motivi. Un limite posto da alcuni commentatori riguarda la “sensibilità” del pubblico (o di alcuni segmenti del pubblico) e il rispetto dei suoi valori (Stefania Parmeggiani, cit.). Il più autorevole portavoce di questa posizione è Papa Francesco, con una battuta che il 16 gennaio 2015 fa il giro del mondo: “Se qualcuno dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno”. In viaggio verso Sri Lanka, il pontefice, che ha accanto Alberto Gasbarri, l’organizzatore dei viaggi papali, spiega:

“Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere. Perché è vero che non si può reagire violentemente. Ma se il dottor Gasbarri che è un amico, dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno (il Papa fa il gesto di dare un pugno, ndr). Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri. Papa Benedetto in un discorso (quello di Ratisbona, nel 2006, ndr) aveva parlato di questa mentalità post-positivista che portava a che le religioni sono sottoculture, tollerate, non fanno parte della cultura illuminista. Tanta gente che sparla, prende in giro, si prende gioco della religione degli altri. Questi provocano e può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se dicesse qualcosa contro mia mamma. C’è un limite, ogni religione ha dignità. Ogni religione che rispetti la vita umana, la persona umana, io non posso prenderla in giro. Ho preso questo esempio del limite per dire che nella libertà di espressione ci sono dei limiti, come (nell’esempio) della mia mamma”.

Il commento di Gérard Biard, in puro stile “Charlie Hebdo”: “Ne ha dette tante di cazzate il papa, ne dirà altre” (Diego Bianchi, La solitudine delle matite: tra ironia e mitra “Charlie Hebdo” cerca la normalità, “Il venerdì di Repubblica”, 6 marzo 2015).
L’artista italiano Michelangelo Pistoletto declina in maniera più sofisticata il dilemma tra libertà e responsabilità:

“Abbiamo acquisito un’autonomia straordinaria sul piano artistico, ma non basta. Ci vuole responsabilità perché questa libertà possa essere bene applicata. La libertà è illimitata. La responsabilità scandisce questa libertà nelle opportunità del reale. Viviamo in un tempo in cui i contrasti tornano a esplodere. Dobbiamo trovare la capacità di mettere gli opposti in equilibrio. L’arte deve assumersi una responsabilità civile. Non deve approfittare della libertà per mancare di rispetto”.
(Stefania Parmeggiani, cit.)

Un artista, aggiungono altri, dovrebbe porsi dei limiti anche per altri motivi. La provocazione può essere dettata dalla ricerca di pubblicità a poco prezzo. Walter Siti avverte che è necessario “capire quando una frase o un episodio sono dettati da una bassa voglia di notorietà, o quando invece sono necessari alla compiutezza della forma. In quel caso la frase o l’episodio deve scriverli, anche se possono apparire provocatori o politicamente scorretti” (in questo caso, ci sono due due giudici: il foro interiore dell’artista e lo sguardo del critico-spettatore, o meglio l’opinione pubblica, con il rischio di una dittatura dei benpensanti e dei filistei).
Rispondendo a un lettore nella sua seguita rubrica sul “Corriere della Sera”, anche Sergio Romano riflette sulla libertà d’espressione:

“Il massacro di ‘Charlie Hebdo’ è stato percepito come un intollerabile attentato alla libertà di espressione. Questa minaccia ha avuto l’effetto di mettere a tacere le critiche di tutti coloro, non soltanto musulmani, per cui molte vignette del giornale satirico francese erano un intollerabile insulto alla loro fede. Non era necessario essere credenti o praticanti per pensare che quelle immagini fossero inutilmente volgari e offensive. Ma in quel momento, di fronte alla ferocia degli attentatori, abbiamo finito per pensare che il valore da difendere fosse la libertà d’espressione. Oggi, di fronte al negazionismo, pensiamo che la libertà di espressione sia meno importante di altri valori. Come ogni confronto anche questo è imperfetto. Il genocidio ebraico appartiene alla nostra storia recente e ha diritto di avere nella nostra memoria uno spazio maggiore.”
(Sergio Romano, La libertà di espressione, il negazionismo e “Charlie Hebdo”, “Corriere della Sera”, 21 febbraio 2015)

Lars Vilks
Come Salman Rushdie, lo svedese Lars Vilks (“Io non sono un vignettista, sono un artista!”) è nel mirino degli integralisti: nel 2007 ha pubblicato sulla rivista “Nerikes Allehanda” e su altre testate alcune vignette in cui Maometto viene rappresentato come un cane randagio. Da allora vive sotto scorta.
Nell’ottobre del 2014 Charb, il direttore di “Charlie Hebdo” ucciso il 7 gennaio, gli aveva consegnato un premio in difesa della libertà d’espressione. Il 14 febbraio 2015, poche settimane dopo il massacro di “Charlie Hebdo”, Vilks è tra i relatori a un convegno sulla libertà d’espressione presso il Centro Culturale Krudttønden di Copenaghen. Il Centro viene preso di mira da una sparatoria.

Il numero 10 di “Inspire”, la rivista in lingua inglese di Al Qaeda nella penisola arabica, pubblica questa fatwa illustrata.

La polizia mette in salvo Vilks che poco dopo, in un’intervista, spiega di avvertire sempre più grave il rischio di autocensura:

“No, neppure io, che non sono certo ottimista, avrei immaginato quel che è successo a Parigi. Mai, neanche nei miei incubi peggiori. I fratelli Kouachi sono stati uccisi ma hanno vinto, perché hanno creato un nuovo livello di paura e di intimidazione. Il loro messaggio rischia di passare. Tenga presente che quando mi invitano, io spesso accetto. Poi, all’ultimo momento, gli eventi vengono cancellati con le scuse più strane, che si possono riassumere sotto la parola paura.”
(Marco Imarisio, Vilks, l’artista svedese nel mirino. “Abbiamo evitato l’autocensura”, “Corriere della Sera”, 16 febbraio 2015)

Ad avvalorare il sospetto di Vilks arriva l’intervista che Hanif Kureishi rilascia a “El País” il 7 giugno 2015:

“Non bestemmio perché non sono così stupido. . (…) Bestemmiare è un diritto, ed è molto importante. Io non lo userei, ma lo difenderei sempre”. Sul “Corriere della Sera” Pierluigi Battista spiega che Kureishi “non è contro la bestemmia per qualche nobile motivo (…) Non si deve bestemmiare, perché è un gesto poco intelligente. Poco intelligente in che senso? Nel senso che devi essere intelligente per capire che se bestemmi ti accoppano, che finisci male, che vieni coinvolto in una carneficina, come i poveri vignettisti, che stupidi che erano, di ‘Charlie Hebdo’. (…) Nessuno ha avuto il coraggio di Kureishi e di tirare fuori l’argomento decisivo: la paura.”
(Pierluigi Battista, Se essere “intelligenti” significa cedere ai nemici della libertà, “Corriere della Sera”, 2 agosto 2015)

Il 26 febbraio, dopo due settimane di pausa, “Charlie Hebdo” torna in edicola. Il numero vende più di sei milioni di copie. La curiosità è ancora alta, ma il clima sta cambiando. Se ne accorge Vincenzo Sparagna, fondatore di “Frigidaire” e protagonista dell’avventura del “Male”. In un instant book pubblicato a fine marzo, commenta:

“Passata la febbre obbligata della solidarietà ai martiri di ‘Charlie Hebdo’, morti per non aver voluto cedere alle minacce integraliste, è scattata l’ora dei distinguo e delle prudenti ritirate. Già da qualche giorno si assiste al coro di personaggi americani ed europei, laici e religiosi, che, pur continuando a deprecare gli esiti sanguinari della censura a ‘Charlie’, avanzano critiche sempre più nette al giornale per aver ‘offeso’ gli islamici con le sue irriverenti vignette su Mohamed. E questo nel cuore di società che dicono di avere a loro fondamento la libertà di pensiero e d’espressione.”
(Vincenzo Sparagna, in AA. VV., Je suis Charlie? La satira riflette su se stessa (ma le viene da ridere), Sagoma, 2015).

A marzo, viene reso noto che in Francia sta dilagando lo hate speech, ovvero i reati di cui si occupa la XVII Camera, o Chambre de Presse, del Tribunale di Parigi: “Nell’ultimo anno le dichiarazioni anti-semite sono raddoppiate e quelle contro i musulmani sono aumentate del 70% dopo gli attentati di ‘Charlie Hebdo’”. Per arginare il fenomeno, si discute se modificare la legge che regola dal 1881 i délits de presse. Richard Malka, storico legare di “Charlie Hebdo”, è contrario: “E’ paradossale notare che dei giornalisti sono morti per difendere la libertà d’espressione e una delle prime misure del governo è una legge che minaccia questa libertà. Se passasse, i vignettisti del settimanale sarebbero processati per le caricature su Maometto per direttissima, tra un rapinatore e uno spacciatore” (Anais Ginori, I discorsi dell’odio, “la Repubblica”, 10 marzo 2015)
Timothy Garton Ash nota che “non è stata scientificamente provata una connessione fra discorsi che propagano odio o che possono essere bollati come estremisti e un incremento della violenza”. Di conseguenza rifiuta ogni forma di censura: “Difendere ‘Charlie’, ma vietare altre forme di espressione diventa complicato. (…) Poniamo che ci sia una legge che vieta di parlare male dell’Olocausto contro gli ebrei. A quel punto gli armeni potrebbero pretendere una legge che vieti di parlare male dell’Olocausto da loro subito. E poi magari gli ucraini vorrebbero una legge che vieti di infangare le sofferenze che essi hanno patito per mano dei russi. E così via, all’infinito” (Enrico Franceschini, “Ma attenti alla censura può istigare la violenza”, “la Repubblica”, 10 marzo 2015).

Il 10 aprile 2015, all’Università di Long Island, il Premio Pulitzer Garry Trudeau riceve il George Polk Award. Trudeau è il creatore di Doonesbury, una delle più note strip di satira (una satira prima di tutto politica). E’ un autore spesso “scomodo”, discusso e a volte censurato. In nome del principio che “della libertà si deve parlare sempre solo nell’ambito della responsabilità”, Trudeau lancia un durissimo attacco contro “Charlie Hebdo”, rilanciando la polemica di Will Self:

“La satira, tradizionalmente, ha consolato i tartassati tartassando chi di consolazione ne ha già. La satira fa scagliare il piccolo contro il potente, contro ogni tipo di autorità. (…) Colpendo duro dall’alto verso il basso, attaccando una minoranza sprovveduta ed emarginata con disegni sgradevoli e volgari, ‘Charlie Hebdo’ ha girovagato senza meta nel regno dell’istigazione all’odio. Beh, voilà: le sette milioni di copie pubblicate dopo il massacro hanno fatto proprio questo, innescando violente proteste in tutto il mondo musulmano, tra cui una in Niger, dove dieci persone hanno perso la vita. (…) La libertà di espressione in Francia è una tradizione troppo piena di contraddizioni per essere abbracciata fino in fondo.”

Anche se poi nella conclusione del pezzo, al di là della discussione sui principi, Trudeau lancia un’accusa ancora più sottile e perfida:

“Il mio è un mestiere che esiste solo grazie alla considerevole libertà di cui godono i commentatori in questo paese. Tale libertà è stata esageratamente bistrattata nell’era digitale, fino a diventare del tutto irriconoscibile. Adesso non è facile immaginare dove si collochi per la satira la linea rossa. Nondimeno, vale sempre la pena di porsi una domanda: ‘C’è mai qualcuno, davvero qualcuno, che sta ridendo?’ Se non è così, probabilmente si è commesso un errore.”
(Garry Trudeau, “Ma davvero qualcuno sta ridendo?” Il dubbio della papà di Doonesbury, “la Repubblica”, 29 aprile 2015).

Negli stessi giorni, il Pen American Center, un’organizzazione da sempre impegnata nella difesa degli autori censurati o perseguitati, annuncia che assegnerà il premio “per il coraggio della libertà d’espressione” a “Charlie Hebdo” che, come si legge nella motivazione, non ha voluto “ostracizzare o insultare i musulmani, ma ha respinto con forza il tentativo di una piccola minoranza di estremisti di porre dei limiti alla libertà d’espressione”.
Dalla scelta si dissociano con una clamorosa lettera aperta sei autorevoli membri dell’organizzazione: Michael Ondaatje, Peter Carey, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Tajye Selasi. Annunciano di voler disertare la cerimonia, perché considerano “la rivista un esempio di intolleranza”. Commenta Salman Rushdie: “Sono solo sei fighette, sei autori in cerca di personalità” (Alberto Flores D’Arcais, Il Pen Club premia “Charlie Hebdo” ma è polemica, “la Repubblica”, 28 aprile 2015).
La polemica non si spegne. Tajye Selasi rilancia: “ Quando ho saputo degli omicidi di Parigi sono rimasta sconvolta, un’altra espressione nauseante di quell’estremismo violento che sta distruggendo parti del nostro mondo (…) Se oggi un giornalista di Baltimora pubblicasse la vignetta di un uomo di colore che viene linciato, quel giornalista averebbe esercitato un suo diritto. Noi però non lo premieremmo”. Aggiunge Teju Cole sul sito “The Intercept”: “Il problema è che chiunque mostri dissenso nei confronti di ‘Charlie Hebdo’ è accusato di sostenere i terroristi” (Stefania Parmeggiani, “Eroi” “No, razzisti” Perché la satira di Charlie Hebdo divide ancora, “la Repubblica”, 29 aprile 2015). Insomma, dietro alla solidarietà si nasconderebbe la trappola del ricatto morale.
Gérard Biard ribatte alle accuse dei dissidenti del Pen Club:

“Ma chi è razzista? Chi considera che i diritti siano universali e chi sostiene che si possa liberamente decidere se credere in Dio? Oppure è razzista chi pensa che solo alcuni siano degni di questi diritti? (…) Non si tratta di rispetto, ma della legittima critica di quei poteri religiosi che vogliono imporre come verità universale la loro visione del mondo. Noi non combattiamo la religione, ma il totalitarismo religioso.”

Biard ribalta l’accusa, attaccando frontalmente il “politicamente corretto”: i sei sono espressione di un

“relativismo culturale che produce solo razzismo e disprezzo. Ora, noi di ‘Charlie Hebdo’ difendiamo un solo credo che è esattamente all’opposto, perché siamo tutti convinti che tutti debbano godere dello stesso diritto alla libertà d’espressione.”
(Pietro Del Re, “Siamo orgogliosi del premio. Chi ci accusa è un oscurantista”, “la Repubblica”, 29 aprile 2015)

Come nota Pascal Bruckner, c’è una radicale differenza tra le reazioni negli Stati Uniti e in Europa:

“Quando insegno negli Stati Uniti ci sono delle donne che vengono in classe completamente coperte dal velo, la trovo una cosa scioccante ma in America è normale. Nei giorni di ‘Charlie Hebdo’ i media americani si sono dimostrati fin troppo prudenti. Su questo c’è un fossato culturale con gli Stati Uniti, che vivono una schizofrenia terribile: hanno Guantanamo, praticano le esecuzioni extra-giudiziali, ogni giorno i loro droni uccidono dei terroristi, ma poi in casa sono attenti a non urtare suscettibilità.”
(S. Mon., Il filosofo Bruckner: “Ci dichiarano guerra. L’Occidente combatta in Medio Oriente”, “Corriere della Sera”, 23 agosto 2015).

L’atteggiamento statunitense nasce dalla dittatura del “politicamente corretto”. In molte università americane, a cominciare dalla Columbia University a New York, i classici – dalle tragedie greche a Francis Scott Fitzgerald – vengono guardati con crescente sospetto. Le Metamorfosi di Ovidio è “un testo che, al pari di molti libri del ‘canone’ occidentale, contiene materiale offensivo e violento che marginalizza le identità degli studenti nella classe”. Racconta Serena Danna:

“La mitologia greco-romana diventa oggetto di trigger warning. Il termine, nato per descrivere le immagini in grado di far riemergere i traumi dei veterani del Vietnam, è diventato popolare nei forum femministi degli anni Novanta per indicare la presenza di contenuti che potessero offendere o turbare le vittime di violenze sessuali. (…) ‘Materiale potenzialmente offensivo’ è stato riscontrato in decine di opere letterarie, responsabili di raccontare – senza alcun filtro preventivo nei confronti dell’uditorio – l’orrore del passato: colonialismo, tortura, pedofilia, schiavitù.”
(Serena Danna, “Corriere della Sera”, 23 maggio 2015)

La giornalista cita anche lo sbalordito commento di “The New Republic”:

“E’ tempo per i nostri studenti di imparare che la vita è offensiva. Una volta che lasceranno il college, saranno costantemente esposti a immagini ed episodi che li offenderanno e aggrediranno”.

Da un lato, nei telegiornali e su internet, una proliferante pornografia di immagini insostenibili, con vittime private di identità e carnefici senza volto e senza responsabilità. La realtà diventa un teatro di forze indecifrabili, incomprensibili, oscure, e dunque inarrestabili, incontrollabili. Dall’altro, nelle aule di scuole e università, l’impossibile tentativo di cancellare dalla nostra società la dimensione tragica, evitando ai nostri figli qualunque turbamento, creando un’arcadia post-moderna attraverso un sistematico meccanismo di rimozione.
Di parere opposto Joyce Carol Oates, convinta che le polemiche sul premio a “Charlie Hebdo” danneggino “un’istituzione che fa molto, ma molto di più che dare un premio”. Fermo restando il diritto alla satira, che “probabilmente non è mai apolitica”, Oates ritiene che sia “un brutto errore dare un premio ad una rivista che si è distinta, tra le altre, per razzismo” (Antonio Monda, “Ecco perché io non sarò mai Charlie”, “la Repubblica”, 11 maggio 2015).
In un appassionato intervento su “The New Yorker”, Adam Gopnik difende la scelta del Pen Club e attacca il partito del “naturalmente… ma forse”, ovvero quelli che dicono: “Naturalmente è sbagliato che i vignettisti siano stati assassinati. Ma forse avrebbero dovuto rendersi conto di quanto risultavano minacciose le loro vignette agli occhi di altre minoranze oppresse”. Il lavoro di “Charlie Hebdo” “non era indicato per gli amanti di una satira sottile e affabile (a me personalmente non sempre andava a genio) ma resta il fatto che professavano idee radicalmente democratiche ed egualitarie, con un’appassionata avversione verso le ipocrisie di qualsiasi religione organizzata”. Il problema non è se quei vignettisti “fossero delle brave persone (…) La distinzione cruciale non è fra chi ci piace e chi non ci piace, ma tra atti di immaginazione e atti di violenza. Quando (…) mettevano in ridicolo Maometto, non stavano dicendo che i musulmani sono cattivi, stavano mettendo in ridicolo l’idea di trasformare una persona in un profeta (…) Un attacco contro un’ideologia non è semplicemente diverso da un attacco contro una persona: è il contrario di una minaccia contro una persona”. Ma allora come distinguere “fra offese a un’ideologia e minacce contro le persone?”, si chiede Gopnik. “E’ per questo che abbiamo critici, tribunali e leggi” (Adam Gopnik, “Difendere la risata anche se è offensiva solo così scrivere ci rende liberi, “la Repubblica”, 5 maggio 2015).

Art Spiegelman, ovvero il “First Amendment Fundamentalist”

Per indicare la “linea rossa” ad Art Spiegelman non servono “tribunali e leggi”. Lo scrittore Neil Gaiman e sua moglie Amanda Palmer, guest editors della rivista “The New Statesman”, chiedono a Spiegelman di disegnare la copertina del numero sul tema “Dire l’indicibile”. L’autore di Maus accetta, a patto di inserire all’interno del numero una pagina dal titolo “First Amendment Fundamentalist”, in cui rivendica il diritto “a essere un idiota” e a disegnare anche Maometto. La pagina, dopo essere stata pubblicata da quotidiani come “Le Monde” e “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, viene rifiutata da “The New Statesman”. Spiegelman decide di ritirare anche la copertina (che raffigura il volto di una donna imbavagliata): “Ho ritirato all’ultimo minuto la copertina del numero ‘Dire l’indicibile’ perché non posso accettare l’inaccettabile” (Alberto Flores D’Arcais, Disegna Maometto censurato Spiegelman e lui ritira la copertina, “la Repubblica”, 2 giugno 2015).

Le due copertine di “New Statesman”.

La discussione si riaccende anche in Francia. A farla esplodere è il pamphlet dello storico e demografo Emanuel Todd, Qui est Charlie? Sociologie d’une crise religieuse, che esce in Francia il 7 maggio 2015 da Seuil: “La condanna dell’atto terrorista non implicava assolutamente la divinizzazione di ‘Charlie Hebdo’. Il diritto a bestemmiare la propria religione non deve essere confuso con il diritto di bestemmiare la religione degli altri (…) L’unanimità della manifestazione dell’11 gennaio, tanto esaltata dai media, era una finzione”. Secondo Todd quella dell’11 gennaio è stata una grande impostura, un episodio di quella che Marx avrebbe definito “falsa coscienza”, “milioni di sonnambuli accodati dietro un presidente, François Hollande, scortato dall’oligarchia mondiale, per difendere il diritto inalienabile di calpestare Maometto”. In piazza non c’erano i giovani delle periferie o gli operai della provincia, ma la periferia più tradizionale: a manifestare non sarebbe stata insomma la Francia atea e rivoluzionaria, quanto quella storicamente antirepubblicana che ha voluto esprimersi a favore della bestemmia sul Profeta. Non la Francia libertina e giacobina, ma la Vandea cattolica e reazionaria, erede di quel Carlo Martello che nel 732 a Poitiers respinse gli invasori arabi dalle terre di Francia. A rispondergli dalle colonne di “Le Monde” è ancora Manuel Valls: ribadisce che la manifestazione non voleva calpestare Maometto, ma era a favore della tolleranza e della laicità (Bernardo Valli, “Solo bugie sul corteo per Charlie” il pamphlet che divide la Francia, “la Repubblica”, 8 maggio 2015).
Il dibattito riprende forza dopo l’attentato al Museo del Bardo di Tunisi, dopo le distruzioni iconoclaste dei monumenti e dei musei nei territori occupati dall’Isis, dopo gli attentati che insanguinano ancora una volta la Francia per celebrare l’anniversario della nascita del Califfato.
A giugno l’emittente televisiva Al-Jazeera chiede ai suoi spettatori: “Sei favorevole alle conquiste dello Stato islamico in Iraq e Siria?”. Tra i 38.000 spettatori che rispondono alla domanda, l’81% risponde “Sì” (Angelo Panebianco, Quell’81% di arabi pro-Isis e l’islam dei sogni, “Sette”, 5 giugno 2015).
L’orizzonte del dibattito si allarga al contesto storico, su scala globale. Per Gilles Kepel, studioso dell’Islam,

“l’Is vuole proprio questo, creare paura in Europa e mobilitare gli europei contro i musulmani, per provocare radicalizzazione fra i musulmani, una loro reazione e infine una guerra civile, come spiegava già nel 2004 l”Appello alla resistenza islamica globale’ che il portavoce di Osama Bin Laden, nome di guerra Abu Mussab Al Suri, pubblicò su internet. Lì si teorizzava l’uso della minoranza di musulmani europei ‘non assimilabili’ alla cultura occidentale”. Kepel invita al dialogo e alla collaborazione tra cristiani e musulmani: “La grande sfida è restare tutti uniti, come nella manifestazione dopo gli attentati di Parigi.”
(Alessandra Baduel, Europei contro musulmani questo per l’Is è l’unico obiettivo, “la Repubblica”, 27 giugno 2015)

Secondo Peter Eisenman, l’architetto che ha ideato tra l’altro il Museo dell’Olocausto di Berlino, abbiamo ormai una sola certezza:

“Possiamo scrivere saggi, studiare la storia, ma io credo che le biforcazioni fondamentali rimangono misteriose, le percepiamo senza comprenderle. Abbiamo appena attraversato una di queste biforcazioni. Dopo gli attentati di ‘Charlie Hebdo’, nessuno crede più che le cose possano sistemarsi; e ancora peggio, nessuno se lo augura più.”
(Francesco Erbani, Cari architetti il paesaggio è irrilevante, “la Repubblica” 22 agosto 2015)

Il filosofo Pascal Bruckner incita a una sorta di guerra santa contro lo stato islamico:

“Dopo l’11 settembre 2001 tutto è cambiato, quella normalità non esiste più, viviamo in una sorta di guerra mondiale che è stata dichiarata alla Francia il 7 gennaio 2015 con l’attentato a ‘Charlie Hebdo’. I cittadini resistono con molto sangue freddo, ma nelle guerre ci sono vittorie e sconfitte. Stavolta ci è andata bene ma non abbiamo ancora visto niente, credo che succederanno molte altre cose imprevedibili. Non sono né ottimista né pessimista ma dobbiamo stare all’erta. Ogni mattina ci svegliamo pensando ‘dove colpiranno stavolta’. Viviamo camminando sul filo, tra paranoia e incoscienza. Ma non possiamo fare altrimenti.”
(S. Mon., Il filosofo Bruckner: “Ci dichiarano guerra. L’Occidente combatta in Medio Oriente”, “Corriere della Sera”, 23 agosto 2015).

Alle polemiche s’intreccia lo scontro che covava all’interno della redazione di “Charlie Hebdo” già prima del 7 gennaio 2015. A maggio Renald Luzier, in arte Luz, annuncia in una intervista a “Les Inrockutibles” che smetterà di disegnare il profeta: “Non mi interessa più. Mi sono stancato, come per il personaggio di Sarkozy, non passerò la vita a disegnarli”. Risponde anche a Philippe Val, ex proprietario di “Charlie Hebdo”, che aveva sostenuto che i terroristi l’avevano avuta vinta: “E’ una follia, non è più lo stesso quel ragazzo… e sia chiaro che parla solo a suo nome! (…) I terroristi non hanno vinto, avrebbero vinto se la Francia intera continuasse ad avere paura, ma questo riguarda solo il Front National”. Jeannette Bougrab, la vedova di Charb, in un’intervista alla rivista “Valeurs Actuels” definisce Luz “un mediocre e un impostore”.
Anche un’altra colonna della rivista, Patrick Pelloux, decide di abbandonare “Charlie Hebdo”:

“Altri continueranno e io resto Charlie nell’anima, ma bisogna sapere voltare pagina. Non apporto più niente a questo giornale, non ho più la forza di scrivere ogni settimana.”
(“Charlie Hebdo” perde anche Patrick Pelloux, “Corriere della Sera”, 28 settembre 2015)

Quando pubblica il suo nuovo libro, Catarsi, riprende il filo della riflessione:

“In realtà tutto è finito allora, quando abbiamo pubblicato le caricature di Maometto, riprendendole da un giornale danese. Ci siamo resi conto che, improvvisamente, il disegno era diventato qualcosa d’altro. Di pericoloso. Ci dicevano: state attenti, offendete milioni di persone. Scherzate col fuoco. Mi sono chiesto spesso che cosa non abbia funzionato. Sicuramente non siamo riusciti a far capire che i nostri erano solo disegni e che il disegno è fondamentalmente innocente, è un gioco. (…) Noi abbiamo sbeffeggiato Maometto perché abbiamo sempre combattuto tutte le religioni. Io sono anti-oscurantista e penso che tutte le religioni portino ad un restringimento della libertà. Che sia quella delle donne o quella di pensiero.”
(Tommaso Basevi, Per sopravvivere all’orrore di Charlie ho letto ‘Shining’, “il Venerdì, 19 settembre 2015).

Nelle stesse settimane, in un incontro organizzato da Cartooning for Peace, lo scontro interno ai superstiti di “Charlie Hebdo” si fa ancora più esplicito. Plantu, storica firma del settimanale, invita all’astuzia:

“Si può essere più furbi degli intolleranti: basta aggirare il divieto”. Come ha fatto il danese Carsten Graabaek, spiega Plantu, che ha disegnato sulla stessa nuvoletta, con Dio e Yahvè, anche Maometto, però con il volto pixelato, senza dunque infrangere il divieto di rappresentare il Profeta. Per Riss, direttore di “Charlie Hebdo”, il disegnatore danese si è invece piegato ai diktat degli integralisti. Del resto Plantu si era sempre rifiutato di disegnare Maometto, tanto che nel 2005 era finito sulla prima pagina di “Le Monde” con un disegno dal titolo “Je ne dois pas dessiner Mahomet.”

Spiega Plantu: “Bisogna rispettare la percezione di chi è coinvolto dal disegno. Anche io ho una percezione, ma non è per questo che la imporrò agli altri”. Ribatte Riss: “I nostri disegni non servono a far ridere. Hanno una dimensione politica.” (Anais Ginori, Le vignette di Maometto dividono Riss e Plantu, “la Repubblica”, 24 settembre 2015)

A ottobre anche “Charlie Hebdo” finisce nella trappola del politicamente corretto: il direttore Riss viene accusato di offendere i down per la vignetta di copertina, che avrebbe voluto attaccare una eurodeputata per le sue frasi razziste (Stefano Montefiori, La vignetta choc di Charlie. Cita De Gaulle ma offende, “Corriere della Sera”, 9 ottobre 2015).
Bernard-Henry Lévy tiene la posizione:

“Bisogna restare ‘Charlie’. E’ facile dire ‘Je suis Charlie’ sull’onda dell’emozione, bellissima, magnifica solidarietà, ma ora al di là dello slogan chi è pronto a dire ‘Io resto Charlie’?”
(Giuseppe Videtti, Bernand-Henry Lévy, “la Repubblica”, 4 ottobre 2015)

Salman Rushdie resta senz’altro Charlie. Il 13 ottobre 2015, inaugura la più importante fiera del libro del mondo, la Buchmesse di Francoforte.

Il suo è un discorso particolarmente atteso, anche perché in segno di protesta l’Iran ha deciso “di ritirare il suo stand alla fiera, ripetendo i motivi (‘insulto all’Islam e ai valori della religione’) con cui nel 1989 l’ayatollah Khomeini pronunciò la condanna a morte (la fatwa) contro l’autore dei Versi satanici”. Rushdie esordisce:

“Dovremmo considerare la libertà di espressione come un fatto naturale, inconfutabile, come l’aria che respiriamo. Ma non è così finché uno Stato minaccia scrittori, editori, librai. Voglio però che sia chiaro che limitare la libertà di pensiero e d’espressione non è solo un atto di censura: è un’aggressione alla natura umana”.

E lancia un appello ai “guardiani della libertà”:

“Sfidiamo le paure. La letteratura non ha paura.”
(Ranieri Polese, Appello di Rushdie “La libertà di parola non è trattabile”, “Corriere della Sera”, 14 ottobre 2015)

E’ passato un anno. A novembre a Parigi due eventi: Nizzarr Bpourchada annuncia che un nuovo partito, la Union des Démocrates Musulmans de France si presenterà alle prossime elezioni regionali del 6 e 23 dicembre: “Vogliamo ridare la parola agli elettori musulmani nel dibattito pubblico, contro troppi pregiudizi (Anais Ginori, Un partito islamico al voto in Francia. Violato un tabù, “la Repubblica”, 11 novembre 2015).
Pochi giorni dopo, venerdì 13 novembre, una serie di attentati terroristici a Parigi provoca oltre 130 morti.

Nota a margine

Nell’ambito della 56a Biennale di Venezia, l’artista svizzero-canadese Christopher Büchel affitta come Padiglione dell’Islanda la chiesa di Santa Maria della Misericordia, a Cannareggio (inutilizzata dal 1969, di proprietà privata dal 1973) e

“la trasforma in una vera e propria moschea. Per entrare bisogna togliersi le scarpe e riporle nell’armadietto, le donne sono invitate a coprire il capo: all’interno c’è il mihrab, l’abside che indica la direzione della Mecca, ci sono i tappeti per la preghiera, e drappi a coprire i mosaici della croce sostituiti dai versetti del Corano.”
(Francesco Furlan, L’artista trasforma la Chiesa in moschea bufera a Venezia la curia all’attacco, “la Repubblica”, 11 maggio 2015)

Si accende il dibattito. Pochi giorni dopo l’apertura, il Comune di Venezia revoca le autorizzazioni:

“La chiesa (…) era diventata non una installazione bensì un luogo di preghiera per i fedeli musulmani, nonostante ciò non fosse precisato. In particolare, secondo una nota della prefettura e del Comune, ‘sono state violate le prescrizioni riguardanti: il divieto di utilizzo del padiglione quale luogo di culto; le modalità di ingresso del pubblico’. Le difformità riscontrare rispetto alle dichiarazioni e alla documentazione prodotta hanno riguardato la violazione delle norme sulla sicurezza, visto il ripetuto superamento del limite massimo di capienza.”
(p.p., Disposta la chiusura della “moschea” realizzata per la Biennale, “Corriere della Sera” 22 maggio 2015).

Nel corso di questo anno, tra l’ottobre 2014 e l’ottobre 2015, gli organi di stampa hanno dato conto di numerosi casi di censura, in tutti i paesi del mondo (anche in Occidente), per i motivi più vari (e a volte ridicoli). Gli autori delle opere, degli articoli, dei film, degli spettacoli incriminati sono stati spesso perseguitati, a volte uccisi.
Se leggete i giornali con attenzione, troverete ogni giorno uno o più esempi di censura, anche nei democratici paesi occidentali, dove la libertà di espressione e di pensiero dovrebbe essere un diritto inalienabile.

Conclusione (provvisoria)

La vicenda di “Charlie Hebdo”, come dimostrano anche gli attentati parigini del 13 novembre 2015, è assai più complessa di quanto non emerga da queste note, che si concentrano sulla discussione intorno al principio della libertà d’espressione e della responsabilità degli artisti (che è stato in ogni caso uno dei temi più dibattuti).
Un primo livello di discussione ha riguardato per l’appunto la “linea rossa”, ovvero gli eventuali limiti da porre alla libertà d’espressione. Le ragioni di questa limitazione sono molteplici. La prima è la sensibilità del pubblico e dei cittadini(o almeno di una loro parte), che impone agli artisti precise responsabilità, considerando anche le possibili reazioni; la consapevolezza di possibili conseguenze rischia però di portare alla paura o a forme di autocensura. Un altro ordine di motivazioni, collegato al primo, riguarda il rispetto delle minoranze, ovvero il “politicamente corretto”, che emerge con evidenza di fronte a certe esperienze di satira politica. Un terzo ordine di ragioni nasce dal sospetto che la ricerca dello scandalo a tutti i costi – il classico épater les bourgeois – non sia altro che ricerca di pubblicità a poco prezzo.
Su un altro piano, quello del contesto politico in cui si è generato lo scandalo, va segnalata in primo luogo l’escalation tra i vignettisti di “Charlie Hebdo” e i loro avversari integralisti. A determinare la rilevanza della vicenda è anche lo scenario da “terza guerra mondiale” in cui si è svolta, con il tentativo usare il terrorismo per alzare il livello dello scontro tra Occidente e mondo arabo, ma anche tra antichi e nuovi europei; e dall’altro tra “moderati integrazionisti” e “integralisti identitari”.

Parigi, Place de la République, 11 gennaio 2015: gli occhiali di Charb, un’immagine iconica della manifestazione

In questo contesti, chi vuole tracciare una linea rossa – e dunque imporre una forma di censura – deve stabilire un criterio di massima per distinguere i discorsi “leciti” da quelli “illeciti”, e decidere chi deve assumersi il compito di tracciare la linea che li separa. In democrazia è un problema (quasi) insolubile. L’unica opzione non contraddittoria è quella di lasciare la massima libertà agli artisti, partendo dal presupposto che i creatori sono ben consapevoli del contesto in cui operano e delle reazioni che può provocare il loro lavoro.
Oggi non ci sono solo le tradizionali forme di censura repressiva delle varie autorità politiche, religiose accademiche, editoriali, mediatiche: si diffondono le azioni di gruppi organizzati di “cittadini” che si mobilitano contro questo o quello spettacolo.
L’inesauribile dialettica e a volte il violento confronto tra l’artista e il contesto in cui opera (artistico, culturale, politico, sociale ed etico) è da secoli un ingrediente costante dell’agire estetico. Ogni artista degno di questo nome è consapevole del contesto in cui opera, e sa che ogni suo gesto può provocare una reazione (anche se ovviamente non è in grado di prevedere esattamente quale potrà essere la reazione). Ogni artista sa dunque di essere la prima vittima di qualunque ritorsione contro la sua opera. E’ in primo luogo questa consapevolezza, questa assunzione di responsabilità in prima persona (un terreno in cui non vige l’habeas corpus) che garantisce a ogni artista libertà d’espressione. E’ per questo che agli artisti deve essere permesso di ridere anche degli dei.
Poi arriveranno le reazioni – magari scomposte, violente, assurde – del corpo sociale, nelle sue articolazioni, con la sua dialettica interna.

“Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente ‘naturale’. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa – tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori. Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune.”
(Maurizio Bettini, Quando si poteva ridere degli Dei, lectio al festival “Il senso del ridicolo”, Livorno, Piazza del Luogo Pio, 27 settembre 2015, in “la Repubblica”, 23 settembre 2015)

Per approfondire:

Oliviero Ponte di Pino, Populismi per il XXI secolo, Doppiozero, 21 maggio 2016.

Oliviero Ponte di Pino, Il Grande Vecchio ovvero La guerra delle immagini, Doppiozero, 13 marzo 2017.

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